Cotti e mangiati....

La cucina degli antichi romani: ieri e oggi


  • Mario Marcone ( cibi e pasti antica Roma)





Le cucine delle culture del bacino del mediterraneo si basavano sui cereali fin dall'antichità, in particolare sui vari tipi di grano. Farinate e polente, e più tardi il pane, diventarono gli alimenti base che fornivano la maggioranza delle calorie necessarie alla maggior parte della popolazione.

Dall' VII all' XI secolo la proporzione dei cereali rispetto alla dieta complessiva si innalzò da circa 1/3 a circa 3/4.

La dipendenza dal grano rimase significativa per tutto il periodo medievale e con la crescita del cristianesimo, tale abitudine si diffuse anche in paesi situati più a Nord.

Nei climi più freddi, però, un simile regime non era sostenibile per la maggior parte della popolazione, e ben adottato solo dalle classi superiori.

La centralità del pane in riti religiosi come l'eucaristia permise all'alimento di godere di un particolare prestigio rispetto a tutti gli altri.

Solo l'olio d'oliva e il vino avevano un valore paragonabile, ma entrambi rimasero di consumo piuttosto scarso al difuori delle regioni calde in cui venivano prodotte.

Le variazioni della dieta su base regionale erano frutto delle differenze climatiche, delle diverse condizioni politiche e delle abitudini locali che variavano all'interno del continente.

Tre pasti principali scandivano generalmente l'assunzione di cibo dell'antico romano: abbondante colazione al primo mattino (jentaculum), leggero pasto a mezzogiorno (prandium), e pasto principale nel tardo pomeriggio (cena).

-  Jentaculum avveniva fra la terza e la quarta ora, ovvero le otto e le nove del mattino, e spaziava dal pane intinto nel vino (consuetudine greca), ad olive, uova o formaggio, ai resti della sera precedente. Per i fanciulli era riservato il latte (ovino o caprino) accompagnato da brioche fresche, salate o addolcite col miele, magari acquistate sulla strada per la scuola dal pistur dulciarius, l'odierno pasticciere.

- Prandium consumato fra la sesta e la settima ora, cioè attorno a mezzogiorno. Solitamente uno spuntino fatto durante la pausa di lavoro, portato da casa o, per i più fortunati con qualche moneta in tasca, acquistato dai venditori ambulanti e nei locali pubblici. Si trovava da desinare con una certa facilità soprattutto in prossimità di luoghi molto frequentati durante il giorno, il Foro e le Terme, dove era un brulicare di posti di ristoro;           non era necessario neppure darsi troppo da fare a cercarne uno, giacché avveduti proprietari spedivano i propri garzoni per le vie del centro e dentro gli stabilimenti, a vendere appetitose cibarie calde o fredde, secondo le esigenze della stagione. Se si mangiava a casa c’erano gli avanzi del giorno prima o, comunque, si trattava di piatti freddi e veloci, da consumare in piedi e senza mensa.

- Cena cadeva verso le sedici (tra ora decima e undicesima), ma con il passare del tempo cominciò lentamente a spostarsi avanti per il raffinarsi dei costumi e l’introduzione dell’illuminazione domestica. Questo pasto poteva essere costituito da un piatto unico se si mangiava da soli (domicenium), o trasformarsi in un’occasione di convivio con addirittura circa 50 portate.          Alla cena conviviale partecipavano gli uomini, sempre sdraiati, se intervenivano le donne esse erano tradizionalmente sedute. Si mangiava in un luogo coperto: casa, portico o giardino. I piaceri della tavola venivano condivisi all’interno di un gruppo sociale ben definito: famiglia, clientela, amici coetanei, collegio professionale o sacerdotale.                                                                   I banchetti non erano prerogativa dei soli ricchi, e quando la situazione economica del padrone di casa lo richiedeva, erano gli stessi commensali a portare il loro contributo per il pasto.

Il prandium era l’unico pasto dei romani impegnati nella guerra, nella politica e in qualsiasi altra attività che richiedesse uno sforzo. Viceversa la cena apparteneva al tempo dell’ozio, cioè del divertimento e della pace.

La consistenza dei singoli pasti variava a seconda del periodo storico, dello status della famiglia, e se si abitava in un centro urbano o in campagna.

Nell'antica Roma vi era anche una distinzione tra i cibi dei patrizzi e quelli dei plebei.

I primi avevano un alimentazione molto vasta che comprendeva:

pesce, carne (suina, bovina e ovina) e varie salse molto acri a base di pesce; l'unica bevanda che loro bevevano era il vino.

I plebei invece avevano una semplice alimentazione a base di pane o polenta, e la bevanda che più usavano era la birra.



  •  Andrea Bruno (vino, pane, utensili antica Roma)



Gli attrezzi della cucina :

1)La forchetta:  gli antichi romani e i Greci non usavano la forchetta, che era stata inventata dagli etruschi.  Però per infilzare le carni ardenti in cucina la forchetta si usava a Roma, lo dimostrano esemplari conservati nella Collezione Gorga, databili intorno al IV secolo d.C., con tre o quattro punte, caratterizzati da un manico a sezione esagonale con una piastrina a zoccolo d’ animale, oppure come mostra un reperto romano esposto a Ventimiglia,  una forchettina a solo due punte che veniva usata per infilzare i datteri.

2) Il cucchiaio:  era conosciuto dai Romani, e ne usavano in legno, bronzo o argento, distinguendoli in cochlearia, di uso più giornaliero, e ligulae, in occasioni più importanti. I cochlearia avevano manico lungo e diritto che finiva a punta, le ligulae invece avevano coppa più ampia, ovale e più pesante, con un manico diritto e  punta.

3) Per attingere i liquidi dalla zuppiera c’ era la trulla, cioè il mestolo.

4) Il bicchiere:  in argento o stagno, costituisce un elemento importante nei servizi di argenteria del I secolo come quelli della Casa del Menandro, di Boscoreale, preziosamente decorate. Non mancano, però, i bicchieri in vetro cilindrici , a coppa o conici, che venivano esposti sui tavolini per mostrare l’ opulenza della Domus ai visitatori.

5)Calice : in bronzo o argento, noto soprattutto in ambiente Etrusco, presenta poche riproduzioni in bronzo (molto rare) . Gli esemplari ritrovati a Pompei , hanno ventre ovoidale su vario tipo di piede, imboccatura verticale e orlo convesso. Nei tesori di argenteria tardo-antica, compare invece il calice  con coppa emisferica su alto stelo elaborato.

6)Cantharus: coppa in bronzo o argento ovoidale o emisferico, poggiante su un alto piede, con anse verticali slanciate. Il corpo è spesso decorato con motivi vegetali o figure. Il Cantharus come tutte le coppe, serviva a contenere frutta fresca o secca, datteri o dolci secchi.

7) Kotyle: coppa profonda con due anse, in bronzo, argento o oro. Veniva usata per bere e brindare.

8)Kylix: coppa in bronzo con due anse, costituita da una tazza bassa e aperta, e da un alto piede. Questa viene usata per bere ,è molto diffusa in ceramica, ma poco in metallo.

9)Simpulum: veniva adoperato per attingere e trasportare i liquidi dal recipiente dove era stata effettuata la mescita, ma serviva anche da misura base sia per la miscela di vino e acqua, sia per la quantità di vino che veniva versata nelle coppe durante i simposi. Nelle raffigurazioni il Simpulum ha un lungo manico verticale, che permette di attingere anche da vasi con imboccatura stretta, veniva fatto in bronzo e argento.
11)     Lanx:  vassoio da portata in argento di varie dimensioni, sia ovale che rettangolare, faceva parte del servizio da tavola dell’argentum escarium, cioè dei piatti e vassoi da portata per i cibi solidi .Nei servizi del III – IV secolo D.C. quelli tondi diventarono più rari, mentre i vassoi da portata, di misure diverse erano completamente ornati.

12)  Salsiera:    recipiente di bronzo poco profondo con becco versatore, aveva una base ampia oppure su tre piedi.

13) Salinum:      recipiente in argento per contenere il sale.










14) Pepiera : recipiente in argento o bronzo per contenere il pepe.

La lavorazione del vino:


Le origini della viticultura romana hanno radici autoctone, infatti i romani avevano appreso tali segreti da Etruschi Greci e Cartaginesi, e proprio da questi ultimi, impararono a costruire aziende agricole capaci di produrre e ottenere grandi guadagni. Vennero cosi create piantagioni specializzate a conduzione schiavile, dove si coltivarono grandi vini del passato. Columella ,autore del De re rustica, raccomandava, infatti che nei vigneti la distanza tra un solco e l'altro fosse di 10 pedes ( 3 metri), quindi un vigneto maritato ad alberi oppure sostenuto da grossi pali lignei.

I vini migliori non venivano trattati, bensì piuttosto arricchiti con l’ aggiunta del defrutum, un mosto concentrato che alzava la gradazione di uno o due gradi alcolici. Il vino più pregiato veniva invecchiato, ma la maggior parte dei vini proveniente da vigneti meno pregiati, o da vigneti troppo giovani, venivano addizionati con sale, acqua marina, resina e gesso, una vera e propria sofisticazione. Secondo alcuni la fermentazione non era controllata e pertanto in alcuni vini il grado alcolico era elevato; a volte però il vino veniva migliorato o con il miele o aggiungendo aromi al mosto. Durante l’ epoca repubblicana ed imperiale i Romani diffusero la vite non solo in Italia, ma in gran parte delle provincie che man mano conquistavano, e in particolare in Gallia. I vini ricercati dai Romani erano molto liquorosi però miscelati con l’ acqua, mentre i Galli bevevano il vino puro, non miscelato con l’acqua, considerato incivile dai Romani perché portava all’ ubriachezza.

Alla fine della repubblica erano noti e ricercati solo 3 qualità di vino: il Falerno, il Cecubo, l Albano. Questi 3 vini rimasero a contendersi i primi 3 posti fin dall’ inizio dell’ età augustea. Sotto Augusto oltre ai 3 grandi vini, ebbero nuova celebrità il Gauranum, il Trebellicum a Napoli e il Trebulanum. I romani raccoglievano i grappoli di uva ben maturi, con coltelli a forma di falce, e li portavano in cantina con ceste, scartando quelli immaturi, che servivano per produrre il vino degli schiavi. Secondo Catone il vino degli schiavi veniva anche fatto aggiungendo acqua alle vinacce dopo essere state pressate, e facendo fermentare il tutto; agli schiavi spettava una razione di ¾ di un litro di vino al giorno, così anche per contadini e operai.

Prima di iniziare un banchetto, vi era l’ uso di eleggere sorteggiando a dadi un magister bibendi, che doveva astenersi dalla bevanda e aveva il compito di stabilire con quante parti di acqua doveva essere miscelato il vino.


Durante l’ ordine dei Tetrarchi, il vino poteva essere di 3 tipi: Atrum (rosso), Candidus (bianco), o Rosatum (rosato).


Apicio diceva che il rosato si otteneva prendendo foglie verdi di limone, che dovevano essere messe nel mosto e lasciate in infusione per 40 giorni. I vini potevano essere anche speziati però, tra questi ricordiamo l’ Ippocas, caratterizzato da mandorle, chiodi di garofano e mais; il Vinum Rosatum caratterizzato da miele e petali di rosa, e il Vinum Gustaticium, che era un vino aperitivo che si beveva a digiuno prima del pasto.

La lavorazione del pane:

Il farro, assieme ai legumi e le verdure fu alla base della alimentazione dei romani sin dalle origini, mentre i Greci preferivano  l’orzo che, però, era meno nutriente del farro visto che conteneva meno proteine più carboidrati. L’orzo fu utilizzato solo nei momenti di carestia, mentre il farro( triticum dicoccum) fu per circa tre secoli il cereale base per i Romani. Era un grano duro, e la tostatura fu resa obbligatoria già dai tempi di Numa Pompilio. Gli sposi con il farro facevano offerte agli dei al momento del loro matrimonio secondo il rito del confarreatio ; inizialmente il farro veniva macinato con il mortaio, la mola rotante fu scoperta più tardi e all’inizio fu azionata prima dagli schiavi, poi  dagli asini, più raramente dai cavalli.

Il pane vero e proprio arrivò sulla mensa dei Romani molto tardi perché, in origine, con il farro si preparava solo la notissima puls ( la polenta ).Con l’arrivo del frumento ,che, si poteva ridurre più facilmente in farina, nacque il pane.

Man mano che Roma si arricchì, si cercò di affinare la farina ottenendo così tre diversi tipi: farina grossa (cibarium),farina media (sivigo),e farina finissima (flos).

All’inizio quello che veniva chiamato pane non era altro,che una sorta di galletta dura non lievitata, successivamente però, si scoprì che il pane lievitato era più digeribile, gustoso, e persino più morbido.

Le prime panetterie comparvero a Roma alla fine del III° secolo a.C., infatti i panettieri produssero un pane buonissimo: un pane speciale da mangiare con le ostriche.

Nella Roma imperiale, le panetterie pubbliche erano circa 258;i prezzi sul lavoro dei panettieri erano vigilati dai funzionari dell’Annona. Mentre gli edili controllavano giornalmente la qualità del pane e il prezzo praticato alla clientela. Il pane più semplice e meno costoso veniva ritirato dalle autorità che poi lo dovevano distribuire alla popolazione più povera; il lavoro nella panetteria iniziava con la pesatura del grano, poi veniva messo il frumento nelle pesanti macine e alla fine seguiva la setacciatura a secondo del tipo di clientela che la desiderava.

Esistevano due tipi di setacci: a maglia stretta per ottenere farina bianca e molto fine, quello a maglia larga per ottenere farina scura e grezza.
  • Sebastiano Platania (  Frutta, Carne, uova, latte, pesce...)



Frutta

Ai primordi i Romani si nutrivano esclusivamente di frutti selvatici: nocciole, fresche o abbrustolite, pinoli, more o castagne. Importantissimi l’uva, di gran lunga la frutta maggiormente rappresentata negli affreschi e nei rilievi antichi, presente in numerose varietà, e il fico occupante un posto preminente tra le portate di fine pranzo. I fichi erano consumati in grande quantità ma erano anche un rimedio contro la fatica e il liquido del gambo era usato contro calli e verruche.

Con l’ingresso nell’età imperiale si sviluppò la coltivazione degli alberi da frutto. Le mele, in particolare, rappresentavano il globo terrestre e per questa ragione da Caracalla in poi una mela d’oro fu posta sulla sommità dello scettro degli imperatori. L’espansione del dominio romano, soprattutto con Traiano, determinò la conoscenza di nuovi prodotti che importati in Italia ampliarono le varietà già coltivate.

Tra questi il melograno (malum punicum) proveniente da Cartagine, le albicocche dall’Armenia (malum armenicum), il ciliegio (cerasus pontica) introdotto a Roma nel 73 a.C. quando Lucullo, vittorioso su Mitridate, lo portò al seguito dalle terre del Ponto e il pesco (malum persicum) (conosciuto in Cina da millenni) nome derivato dalla Persia sua patria d’origine. Il frutto, conosciuto ancora oggi come “persica” a Roma e in certe regioni del Nord Italia, era simbolo di amore e giovinezza e fu introdotto nell’Urbe verso il I sec. a.C. Noti anche meloni e angurie introdotti in Italia dalla Grecia.

Oltre ad essere consumata fresca, la frutta veniva conservata. I Romani conoscevano inoltre la frutta secca e ne consumavano molta: le noci, spesso mangiate con l’uva, venivano adoperate dai bambini anche come biglie. Inoltre erano distribuite dagli sposi ai fanciulli, durante la festa nuziale, come fossero confetti.

Ortaggi e verdure

Nella cucina romana tra I sec. a.C. e I sec. d.C. erano già presenti quasi tutti gli ortaggi che ancora oggi utilizziamo (ad eccezione di melanzane, portate nel Medioevo dagli Arabi e peperoni, patate, pomodori, conosciuti in seguito alla scoperta dell’America). Netta era la distinzione tra ortaggi da insalata e quelli destinati a preparazioni più elaborate: si tenevano in gran conto i prodotti che non avevano bisogno di cottura e facevano risparmiare legna, sempre pronti e disponibili, detti acetaria perché all’inizio conditi solo con aceto, in seguito anche con olio.

Sia in età repubblicana che in quella imperiale il primo posto per quanto riguarda l’alimentazione vegetariana era occupato da bulbi, germogli e soprattutto dalle radici per la facilità di conservarle per lunghi periodi sotto sale o anche in salamoia. Erano comunque molto usati nella cucina romana la lattuga (detta ancora oggi “romana” e piantata obbligatoriamente dai legionari ai margini del castrum), i funghi di cui i Romani erano ghiotti, il carciofo (molto costoso e dunque riservato soprattutto ai ricchi) e il cavolo, ortaggio a cui riconoscevano proprietà miracolose, oltre che lassative e cicatrizzanti.


dalle tavole.

Erbe aromatiche e spezie

C’era un grande uso di spezie nella cucina romana e buona parte di esse proveniva dall’Oriente; erano indispensabili perché servivano per coprire l’odore della carne e del pesce che stava andando a male, una sgradevole conseguenza della mancanza di frigoriferi e conservanti. Tra le spezie autoctone più utilizzate vi erano l’aneto, il cumino, la maggiorana, il coriandolo e i semi di lentisco, andati in disuso nella cucina moderna.

Venivano importati dall’Oriente lo zenzero, la cannella, i chiodi di garofano e soprattutto il pepe in diverse qualità che aiutava a conservare meglio le carni.

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Carne

La carne, proveniente soprattutto dalle regioni dell’Italia meridionale (Lucania, Sannio ma anche Campania e, fino alla metà del V sec., Sardegna), era molto importante nell’alimentazione romana. Per la sua durezza nonché per la conservazione sotto sale, veniva in genere cotta almeno due volte: la prima nel latte e la seconda con le verdure o arrostita. Molto consumata era la carne di maiale, perché di questo animale si mangiava tutto: Plinio (2), inoltre, affermava che le sue carni offrivano quasi cinquanta differenti sapori a differenza del sapore unico di ogni altro animale. Il suo grasso veniva talvolta impiegato anche come rimedio per alcuni malanni.

Diffuse erano anche le carni di montoni e capre, meno pregiate a differenza di quelle di agnello e capretto, rinomate per la loro morbidezza; il ghiro, servito di solito disossato e farcito, era una vera ghiottoneria per i Romani e ne esistevano alcuni piccoli allevamenti (gliraria) ospitati in contenitori di terracotta di solito ubicati in giardino, nei quali venivano fatti ingrassare al buio; lo stesso anche per le lumache allevate in recinti chiamati cocleari e alimentate a frumento cotto nel vino per renderle più gustose e digeribili. Il pollo era mangiato soprattutto dai poveri. Carni di lusso, invece, erano caprioli, daini e cervi e proprio per questo venivano anche allevati nei vivai o nei boschi vicino alle ville perché la loro carne, molto ricercata, era fonte di sicuro guadagno.

Il bue inizialmente non fu utilizzato per la gastronomia, poiché ritenuto sacro, bensì nel lavoro dei campi. Successivamente, però, la sua carne venne servita persino durante i banchetti in onore degli dei. Tra la selvaggina, che generalmente non era sacrificata, figuravano l’asino selvatico, il cinghiale, la cui carne era la più ricercata e costosa, la lepre, una vera prelibatezza per i Romani (una credenza popolare voleva che ci si mantenesse belli per nove giorni dopo aver mangiato la sua carne), l’anatra e l’oca. Di quest’ultimo animale, allora come oggi, si mangiava il foie gras inventato, secondo Plinio (3), da Apicio e chiamato ficatum (termine arrivato poi fino a noi per indicare il fegato) per le grandi quantità di fichi che l’animale doveva ingerire

Molto utilizzata era la carne di uccelli come piccioni, tordi, tortore, usignoli, colombe, pernici, fagiani, faraone e beccafichi. Venivano cucinati anche alcuni trampolieri, in gran parte importati dalle varie regioni dell’Impero, come i fenicotteri di cui si gustava soprattutto la lingua, le cicogne e le gru, tutti ricercati non solo per la bontà della loro carne ma anche per la considerazione sociale di mostrare sulla propria tavola questi cibi fuori dal consueto. Il pavone era quasi esclusivo appannaggio degli imperatori e Svetonio (4) riferisce che Tiberio mise a morte un pretoriano per aver rubato un pavone da un giardino. Lo struzzo, invece, era particolarmente amato dall’Imperatore Eliagabalo tanto che per un solo suo pranzo ne furono serviti seicento per gustarne le teste. Anche i pappagalli e i cammelli non sfuggivano per la loro rarità alle stravaganze delle tavole dei ricchi Romani.

Pesce

Cibo molto diffuso, sia quello di fiume o di mare che quello allevato in grandi vivai, nel tempo divenne un alimento essenziale per i Romani. I pesci utilizzati erano circa centocinquanta specie e venivano consumati presso ogni classe sociale, seppure in maniera differente. Nelle tavole dei ricchi c’erano orate, triglie, sogliole, dentici e trote; per le tavole dei poveri quelli consumati erano più piccoli, di basso prezzo e di soliti conservati in salamoia. In particolare le triglie erano considerate fra i pesci più ricercati e ambiti e si spendevano cifre elevate pur di accaparrarsene un bell’esemplare.

Tra i ricchi era segno di distinzione allevare le specie più pregiate come ostriche, murene, orate o saraghi, affinché non mancassero mai nelle mense: nei giardini di alcune case venivano adibite allo scopo addirittura delle piccole piscine e l’uso sempre più diffuso del vetro portò la pratica persino all’interno delle case. I primi pesci ad essere allevati in cattività furono le orate e le murene e da essi derivò il soprannome portato con onore da coloro che, per smodata passione, avevano ottenuto questo risultato: Sergio Orata e Licinio Murena.

I frutti di mare anticamente erano mangiati durante il periodo della carestia ma ben presto vennero considerati pregiati e prelibati. Erano mangiati cotti o crudi, conservati in giare con sale e insaporiti con salsine.

Pollame e uova

I Romani furono grandi consumatori di pollame e uova ma, oltre che per finalità alimentari, i polli trovavano impiego anche per quelle sportive e religiose. Nella Roma imperiale, infatti, esistevano intere squadriglie di galli profetici ai quali, prima di ogni grande battaglia, veniva offerta una razione di mangime; se i pennuti mangiavano voracemente la vittoria era assicurata, in caso contrario la sconfitta era inevitabile.

Il cibo che compare più frequentemente sulle tavole dei Romani erano le uova di cui si preferiva la chiara al tuorlo, e che erano molto apprezzate sia come antipasto che consumate rapidamente durante la giornata.


Latte e derivati

Il latte fu un alimento molto utilizzato dai Romani. Nella scala di preferenze del consumo di latte fresco, essi mettevano all’apice quello derivato da allevamenti caprini e ovini, in posizione intermedia il latte di cavalla e d’asina, in fondo alla lista quello bovino. Bevuto fresco o aromatizzato e fondamentale nella preparazione di dolci unito a farina, miele e frutta, inizialmente era usato anche per zuppe e minestre ma in seguito venne sostituito dal brodo di carne. Il latte garantiva inoltre un alimento energetico di facile conservazione e trasporto se trasformato in formaggio che divenne presto una pietanza completa. A colazione e pranzo si consumava prevalentemente il tipo fresco, mentre a fine cena si preferiva il secco, perché risvegliava la sete. Il burro era ricavato dal latte di capra, vacca, asina e cavalla: prevalentemente usato come medicinale o unguento per il corpo, era invece raramente presente in cucina anche perché non ne era conosciuta la tecnica di conservazione.
  • Giuseppe Parisi ( I Thermopolia)


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Nella società romana vi era una netta distinzione tra la parte nobile e quella povera. I ricchi(la minoranza)potevano permettersi una domus quella che oggi potremmo chiamare villa. La maggior parte della popolazione(quella più povera) viveva in appartamenti o stanze di caseggiati detti insulae alti fino a sette piani che però la maggior parte delle volte non avevano una cucina o se l’avevano era piccola e scomoda. Questi cittadini quindi per mangiare, andavano in quelli che oggi chiameremmo fast food o bar per sgranocchiare qualcosa velocemente durante la giornata  queste locande erano chiamate “thermopolia”.Questi Erano locali in cui si servivano bevande e cibi caldi, aperti sulla strada, con un bancone in muratura spesso decorato, in cui erano incassati i “dolia”, le giare che contenevano la merce. Spesso negli ambienti sul retro ci si poteva sedere per consumare il pasto. I Thermopolia ricordano quindi gli odierni fast food visto che le persone mangiavano in piedi e di fretta, ma c’era anche la possibilità di portare a casa il cibo, come i moderni take away.

Pratiche popolari del genere erano però considerate di cattivo gusto dai notabili, i quali vedevano scadere la propria reputazione se erano visti far colazione alla taverna, perchè vivere per la strada non era serio. Questi infatti disponevano quasi sempre di una cucina e non erano obbligati a mangiare fuori dalla propria abitazione. Per avere un’idea di quanto fossero diffusi i thermopolium basti pensare che una città come Pompei ne aveva circa 90. Questo è uno dei pochi rimasti.


 
Come nei moderni bar, i thermopolia non offrivano ai clienti un’alimentazione corretta ed equilibrata pari a quella che avevano gli altri cittadini. Forse però gli odierni fast food hanno un po’ esagerato da questo punto di vista…


Vi mostreremo ora un video sulla cucina, per farvi capire alcune ricette degli antichi romani , ma prima un breve accenno sul grandissimo chef romano  Marco Gavio Apicio



Apicio vissuto tra il 25 e il 37 d.C, era un personaggio molto noto dell’ epoca, definito il più grande chef dell’ impero romano ai tempi di oggi avrebbe i titoli come Carlo Cracco (4 stelle michelin), o Bruno Barbieri ( 4 stelle michelin).

Era un personaggio molto esuberante e anche strano, infatti si diceva che nutrisse le sue murene con la carne degli schiavi . Prima della sua morte però, il suo patrimonio venne ridotto a solo 10 milioni di sesterzi, e con questa cifra non si poté permettere tutti i lussi con cui viveva prima e allora andò  a fare il critico di cucina per tutte le province romane senza ottenere però grande successo, perché a quel tempo si rese conto che la cucina ai Romani non interessava tanto quanto i giochi sportivi o il circo, e quindi trascorse gli ultimi anni della sua vita a trascrivere il primo vero libro di ricette romane il “De re conquinaria” diviso in 10 paragrafi. Secondo Apicio, la vera delizia del cibo romano erano le salse, come il Garum ( a base di pesce), il mosto cotto e rappreso( defrutum) oppure il miele mescolato con spezie e a volte con verdure tritate
( scritto da Andrea Bruno)





2G Liceo Scientifico Galileo Galilei

1 commento:

  1. Interessante capire in modo particolare non solo la qualità di un sistema di alimentarsi in modo storicamente diverso quanto LE QUANTITÀ in riferimento alle attività motorie/sportive di 1uel tempo rispetto ad oggi.
    Prof. Ser Piro

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